mercoledì 4 febbraio 2009

I Doria e il tributo della Bannalità

L'immagine che vedete è il castello di Dolceacqua, particolare di una stampa del Gioffredo del 1656, ritagliata da una pagina degli "Studi preliminari sul Castello di Dolceacqua" di Ezio Mitchell edito dall'Istituto Internazionale Di Studi Liguri Bodighera del 1983.

Di seguito riporto parte degli studi fatti da Paolo Veziano dal titolo " Nota alle Cronache sull’ulivicoltura d’Isola Bona tra Settecento e Ottocento".

Questi studi mettono in risalto i cattivi rapporti tra i Doria e gli abitanti dei borghi sulla spinosa questione della gestione della frangitura delle olive, che ricordiamo essere l'unica economia di sostentamento della popolazione.

Di Paolo Veziano

E’ noto che i Doria fossero proprietari dal 1525 dei frantoi di Apricale, Dolceacqua, Isolabona e Perinaldo e che detenessero il monopolio assoluto delle acque pubbliche. Meno noto è che i corrotti amministratori dell’epoca accordarono ai Doria il diritto di imporre alle popolazioni un pesante tributo – meglio noto come Bannalità – che relativamente alla frangitura delle olive prevedeva, oltre ad una imposta del dodici per cento sull’olio, il pagamento delle spese di mantenimento giornaliere degli operai e i diritti derivanti dalla vendita della sansa. Una condizione che aveva costantemente dissanguato la popolazione locale e l’aveva fatta precipitare in un «baratro di strozzante miseria e di spasimi». Questo specifico aspetto delle Bannalità non costituiva tuttavia l’unico motivo di risentimento della popolazione nei confronti dei Marchesi. Come evidenzia lo studio di Marco Cassini su Apricale la decisione «politica» dei Doria di non costruire nuovi frantoi si traduceva, di fatto, nell’impossibilità pratica per quelli esistenti di trasformare in tempi rapidi una produzione sempre crescente. Una impasse, forse voluta, che arrecava ai contadini un danno economico rilevante, poiché le olive giacevano a marcire nelle cantine e l’olio che si otteneva era di qualità così infima da poter essere venduto a «vil prezzo» soltanto alle fabbriche di Oneglia.
Si può solo immaginare con quale giubilo la popolazione di Isolabona e dei territori dell’ex Marchesato accolse la decisione del Governo francese di abolire «l’esecrato ed infernale giogo della Bannalità». Gli anni che seguirono videro un momento di grande fervore sociale e di silenziosa operosità che portò – come nel caso di Apricale – alla costruzione di nuovi frantoi cooperativi in grado di sopperire a quella cronica mancanza che tanti danni aveva provocato.
Caduto Napoleone gli antichi Stati tornarono al Re di Sardegna. Ritornarono anche i Doria che rivendicarono, se non l’antico dominio, almeno il ripristino delle Bannalità e, a tal scopo intentarono causa alle comunità di Dolceaqua, Apricale, Isolabona e Perinaldo. La Regia Camera, dei Conti di Torino con la sua sentenza del 4 gennaio 1817 riconosceva la giustezza delle loro istanze e ordinò di riattivare i frantoi e di riconoscere nuovamente ai Doria le Bannalità del dodici per cento del prodotto delle olive, oltre ai diritti sulla sansa.
Una decisione che le popolazioni locali definirono assurda e «degna delle tenebre e della peggior barbarie del Medio Evo» e che contribuì ad esasperare ulteriormente gli animi. Larghi stati di una popolazione strangolata dalla miseria – che caldeggiava apertamente il ritorno del liberale Governo francese – si opposero a questa decisione e dichiararono apertamente di non voler più sottostare al giogo delle Bannalità.
Il comune di Isolabona fece propria tutta l’insofferenza e l’esasperazione della popolazione ed indirizzò ai Savoia più di una supplica con la quale si chiedeva l’abolizione degli anacronistici diritti feudali goduti dai Doria. Il comune nel 1850, con la probabile consulenza di un legale, elaborò una nuova istanza, che attraverso una serie di postulati, tendeva a dimostrare l’infondatezza giuridica e l’iniquità sociale della sentenza di Torino.
Non è noto se questa istanza sia stata accolta positivamente dai Savoia. E’certo invece che le Bannalità furono definitivamente abolite dai Sovrani dopo l’unità d’Italia concretizzatasi nel 1861. Continua.......


Chissà se è proprio colpa dei Doria se in questa zona l'olivicoltura non ha trovato nel passato un aiuto per svilupparsi, o se la colpa, come al solito, la si deve attribuire alla popolazione che non ha saputo trarre il meglio da una risorsa.....Chissà!!!


Ecco oggi il castello di Dolceacqua.

9 commenti:

  1. Lodevole post, mi piace.
    Riporto cosa scriveva Montesquieu, nel 1782, da Genova: … dacché i genovesi hanno perduto un po’ dei loro capitali a Vienna, Venezia, in Spagna e Francia, hanno preso a spendere i loro denari nel disboscare le montagne per piantarvi gli olivi e da vent’anni a questa parte tali colture sono molto aumentate.
    Il tutto, certamente, con le dovute eccezioni.
    Buona serata.
    Rino.

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  2. Grazie Rino per il tuo contributo.E' sempre un piacere leggerti anche nei commenti!
    Roberta

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  3. però simpaticoni questo DOria! ti penso domani mentre affronti il prefestival...terribile! un bacioneeeeeeee

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  4. E poi ci pregiamo (io non mi pregio) di chiamarci "Terra dei Doria" dopo tutto quello che ci hanno rubato questi delinquenti. Rubato a noi che eravamo poverissimi.

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  5. Ah, complimento per lo studio di Paolo.

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  6. Sempre interessanti i tuoi post, Roby!
    Hai ricordato un pezzetto di Storia che in qualche modo ci accomuna, la Sardegna è stata conquistata (anche) dai Doria, precedentemente al 1500...
    bacioni!
    g

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  7. Complimenti Paolo na questa sera ti sei fatto "mangiare" per ben due volte il Bagatto da Mariano.

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  8. Molto interessante questo studio che hai presentato, Roberta.

    Qui ci sono dei riferimenti storici alla gloriosa famiglia Doria, o più correttamente D'Oria.

    Baci
    annarita

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  9. @annarita, sempre super informata, grazie!

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