domenica 8 novembre 2009

Verso Bundun, seconda parte.


Il post di oggi è la continuazione del brano di André Cane "Verso Bundun".
Nella seconda parte ci vengono elencati e come si svolgevano i lavori che si facevano nell'orto.
Vi è poi una parte dedicata ad un personaggio un po' " strano", una sorta di eremita che abitava in un "casone", una casa di pietra di campagna, “Antò de Peluga”.

Scrive Andrè Cane: "Spiavamo il debole eco dell’Angelus scampanellato da “Badin” a significare
che il ritmo delle giornate, allora, era segnato dalle campane, oggi invece.....

L'immagine che accompagna il post è la copertina della rivista " Nice Historique"di giugno/luglio 2006, anno della sua morte. Questa rivista è l'organo ufficiale dell'accademia nizzarda, l'accademia che si occupa di storia in Costa Azzura fondata da Enrico Sappia

Immagine reperita in rete

L'omaggio di un numero monografico di una rivista così importante, non può fare altro che alimentare la notorietà di André Cane, un omaggio a una persona che è riuscita a fare della sua grande passione, la storia, una ragione di vita.
Con il suo " Au fil de la Nervia" ci ha regalato spaccati vita quotidiana, ricordi di scene di strada, ricordi dei ritmi e dei costumi cittadini che forse sarebbero andati perduti.

"Verso Bundun" seconda parte

Di André Cane
Traduzione di Nadia Veziano

Quello che temevo arrivava, perché non mi piaceva per niente quel luogo cupo e triste che raggiungevamo dopo un’ora e trenta di cammino.
Non potevo oppormi, perché temevo la severità di mia zia.
Partimmo dunque nel fresco mattino quando la cima del Toraggio si stagliava appena, alle prime luci dell’alba.
Formavamo un doppio duetto. Ero davanti, un sacco vuoto sulla spalla sinistra.
Con la mano destra, un po’ molle, tenevo la piccola corda che mi univa al collare della nostra capra.
Una bestia magnifica, dal manto color latte e miele, indomabile, come tutte le capre degne di questo nome.
Mio zio e mia zia, seguivano. Lui, con una “ barii” (barile) ben nascosto sotto una tela di sacco e posato con precauzione su un “pagliassu” .
Lei, con un grande cesto sulla testa dal contenuto leggero:
la sua inseparabile “mesuia” ( falcetto) e quello che era il nostro frugale pasto di mezzogiorno, un grosso pane raffermo, qualche pomodoro, due cipolle, qualche presa di sale, e un grosso fiasco di olio.
Quanto al bere, lo trovavamo sul posto sotto forma di un sottile filo d’acqua che scorreva tra due larghe lastre di pietra grigia.
Camminavo senza fretta, zitto e rimuginando malinconico.
Arrivati al ponte della “ Molinella” lasciavamo la strada e il suo morbido tappeto di polvere che i miei piedi scalzi sfioravano con sollievo.
Ci inoltravamo su un sentiero pietroso. All’inizio, azzardavo una pausa, rivolgendo uno sguardo implorante ad una vecchia cappella già corrosa dagli anni, la sua nicchia era protetta da un tetto di sottili lastre di ardesia e sormontata da una croce di ferro.
In basso, un bouquet di fiori di campo, testimonianza toccante del culto per la Madonna, il cui volto dai tratti appena visibili, risaltava su un affresco del muro.
Il nostro cammino riprendeva più lento dopo la prima salita, in cima alla quale troneggiava una lunga roccia piatta ad altezza di schiena .
Era uno dei tanti “ posaui “ predisposti sui sentieri.
Quelli che scendevano carichi, ed era sempre il nostro caso al ritorno, posavano qui il loro fardello per qualche minuto di riposo, prima di affrontare l’ultima tappa.
Era anche l’inizio del calvario per i miei poveri piedi nudi, torturati dalle asperità del suolo. Inoltre, dovevo tirare sempre più la corda per fare avanzare la capra, tentata dal tenero fogliame lungo il sentiero, e soprattutto dalla fascia di nostro cugino “Bedò” dove si alternavano fitte file di fagioli e mais.
Dovevo in quel passaggio critico, radunare tutte le mie forze e l’aiuto di mia zia per resistere alla trazione della bestia.
Dovevo impedirle con ogni mezzo di ripetere il disastro che aveva provocato, in meno di un minuto, l’anno prima.
All’ arrivo nel luogo delle nostre fatiche, ci dividevamo l’ingrato lavoro.
Mio zio versava il fertilizzante della “barii” nella giara sotterrata in un angolo, sotto una “topia” (pergolato) ombrosa ricoperta di vite.
Aggiungeva al contenuto e a quello che già avevamo portato, quattro volte il suo volume di acqua. Dopo aver energicamente mescolato il liquido con un bastone, cominciava subito, munito di un secchio e di una zucca vuota, la distribuzione ben dosata, alla verdura che cresceva nelle due grandi fasce che possedevamo.
Io e mia zia andavamo con due secchi - il mio era più piccolo- al bordo di un minuscolo laghetto che offriva le sue acque turchesi al vicino vallone.
Passando, sbirciavo con interesse e con cognizione di causa, il livello dell’acqua nel pozzo profondo, il cui contenuto serviva a innaffiare, secondo orari prestabiliti e a turno, le nostre terre e quello degli altri vicini.
Era quasi vuoto. Ciò voleva dire che il nostro lavoro sarebbe stato lungo e faticoso.
Dovevamo allora, con i piedi nell’acqua, attingere con i nostri secchi e far precipitare il contenuto in uno stretto rigagnolo erboso, che al termine di un percorso sinuoso di circa duecento metri, aveva il pozzo come punto di arrivo.
Questo esercizio sfiancante, perché eravamo sempre curvi, si prolungava fino a che la quantità d’acqua non avesse raggiunto il volume necessario per poter innaffiare.
Verso le undici, il sole d’ agosto quasi verticale, con i suoi raggi implacabili sulle nostre schiene, aumentava la nostra fatica.
Pochi istanti di pausa mi permettevano di osservare a dieci passi una grossa lucertola verde. Era immobile sul bordo del laghetto là dove l’onda immobile e scintillante moriva sul fondo liscio e grigio di lastre scistose.
Non era per niente turbata dal nostro trafficare.
La sua bocca si apriva di continuo, come se volesse inebriarsi di canicola.
Sporgendomi più da vicino sullo specchio d’acqua, potevo seguire le tracce e i fremiti appena percepibili che le idrometre ( ragni d’acqua) pattinatrici vi tracciavano con graziosi e veloci movimenti.
A volte, un gesto brusco provocava la fuga di una biscia indifferente dalle scaglie verdi e gialle. La vedevo sparire velocemente nell’intricata e folta vegetazione di giunchi, rovi e canne che invadevano gli argini.
Spiavamo il debole eco dell’Angelus scampanellato da “ Badin” per fermarci e consumare all’ombra della topia una specie di pranzo.
Mia zia tagliava il grosso pane e divideva sulle due metà pomodori e cipolle, spolverava di sale, poi spalmava senza risparmio il nostro meraviglioso olio limpido e dorato.
Magro menù certo, ma sano, oh! quanto, se lo confrontiamo al cibo raffinato e sofisticato d’oggigiorno che lusinga il nostro palato ma rovina il nostro organismo.
Annaffiavamo quel piatto unico e freddo con alcuni sorsi d’acqua fresca e chiara che facevamo sgorgare da una brocca, riempita alla sorgente del ruscello.
Al pranzo frugale seguiva un’eccellente siesta di un’oretta che ci concedevamo, coricati su un sacco, per terra.
Il pomeriggio era dapprima dedicato alla raccolta di fagioli, pomodori e altre verdure.
Poi mio zio liberava in parte, con l’aiuto di una grossa pietra il robusto tappo di quercia che ostruiva il pozzo e ne regolava il flusso.
Cominciavamo subito ad annaffiare, questo era l’incombenza di mia zia che, armata di una “ sapa ” ( zappa) dirigeva il getto in ogni solco di fagioli, pomodori, melanzane, mais…
Questa fastidiosa e monotona incombenza durava più di due ore, ritmata solo dal rumore secco e regolare della zappa che spostava la terra o dai saluti amichevoli di coloro che andavano o tornavano da “ Ansa” o da “ Marcora” o da “Antò de Peluga”, un celibe rude e sempliciotto ma gioviale che ci dilettava con i suoni nasali del suo flauto di canna.
Era per la maggior parte del tempo seduto sulla porta del suo “ casun” ( casolare) che confinava con il nostro terreno, in un totale ozio, abbigliato con una camicia e un pantalone ricoperti di macchie e ripetutamente rattoppati.
I suoi piedi, che non ho mai visto ne puliti ne con le scarpe, mostravano sotto la pianta uno spesso strato calloso,nero ma protettivo.
La sua ricca capigliatura aveva rinunciato da tempo alle forbici, al pettine e al sapone. Insomma, un individuo perfettamente integrato nella natura e adattato a una vita semiprimitiva.
Mio zio, terminata la sua concimazione, confezionava un voluminoso fardello di rami e d’erba per la nostra capra e i pochi conigli che abitavano la nostra stalla in paese.
La via del ritorno ci vedeva sempre, tutti e tre, con un fascio.
Mio zio si era messo sulla schiena la “bari” vuota e un grosso fascio d’erba.
Mia zia si era posta sulla testa un sacco di patate e si apprestava, camminando, a continuare il lavoro a maglia ( una calza) che aveva iniziato salendo.
Io conducevo la capra apparentemente sazia e impedita nel suo cammino dalle mammelle ingrossate e cadenti, obbligandomi non più a trattenerla ma al contrario, a tirarla . Nuova fatica per me che ero impacciato nei movimenti dal dover tenere sulla spalla sinistra una grossa zucca che avrebbe fatto parte del nostro menù l’indomani.
Non tralasciavo mai, prima di riprendere il camino, di andare lì vicino in un minuscolo ruscello tappezzato di muschio.
Mi rinfrescavo i piedini stanchi e mi dissetavo al filo d’acqua, visitato da vespe svolazzanti, che precipitava verso valle in mormoranti cascatelle.
Lasciavamo Bundun quando ormai il sole calava, in una apoteosi color sangue e oro dietro i fitti uliveti che ci dominavano dall’alto.
“ Antò” il flautista improvvisato, taceva.
Appoggiato alla porta del suo povero alloggio, dove restava da solo per lunghi mesi, ci salutò con un cordiale “ bona ”.
Oltre la soglia scorgevo l’unica stanza fumosa e color della notte.
In fondo il camino dove danzava un grande fuoco che lambiva una marmitta di terra posata sulle pietre.
Il nostro vicino si preparava la minestra per tre giorni.
D’altronde l’avremmo rivisto a breve perché avevamo deciso di zappare, per la semina autunnale delle fave e dei ceci, la fascia di sotto.
Lavoro che si sarebbe eseguito con quel faticoso attrezzo che era il “ magagliu” strumento estremamente famigliare col suo manico corto e robusto e i suoi due becchi appuntiti e lucenti per l’usura.
Lo vidi innumerevoli volte sulle spalle maschili che oltrepassavano il ponte, così come “ la mesuia” che spuntava dal cesto delle donne .

8 commenti:

  1. Che bello questo racconto un po' bucolico, che ci offre un affresco di quella che era la vita nei campi in un luogo preciso del nostro Paese.

    Anche se non sono originaria della tua zona, la narrazione riesce a farmi comprendere caratteristiche di vita vissuta che non si ritrovano in altri resoconti di carattere storico.

    Bello, bello, bello:)

    RispondiElimina
  2. durante la lettura, ho rivisto la scena e la comparavo con quelle viste da me bambina. a quei tempi tutti avevano le scarpe, ma le donne facevano la calza col canestro sulla testa, mentre andavano in campagna, proprio come nel racconto. ciò che mi sembra inusuale è il coltivare le melanzane nell'orto, verdura che nei miei tempi a Castelvittorio non esisteva, figuriamoci all'epoca del racconto...
    bella pagina di storia!

    RispondiElimina
  3. roby, perchè mi viene quella specie di bidone sotto al mio commento? di sicuro ho fatto qualche pasticcio...

    RispondiElimina
  4. @raggio, il bidone serve per eliminare il commento....lo vediamo solo io e te.
    Se scrivi qualcosa di sbagliato o non ti piace il commento, lo puoi cancellare cliccandoci sopra, mentre io lo uso per eliminare i commenti "fuori luogo" e quelli spam;))
    tranquilla non hai combinato nessun pasticcio!

    RispondiElimina
  5. Veramente un bel racconto!!!
    Buona serata :)

    RispondiElimina
  6. Brava la nostra Roberta.
    Bella la tua storia.
    un bacione

    PS...sto aspettando che i tuoi semi si infoltiscono un tantino in più per farteli vedere...non ho dimenticato la promessa.
    ciao.

    RispondiElimina
  7. ha ragione annarita, è bucolico come stile e molto toccante
    buon martedì ^__________^

    RispondiElimina
  8. io vivrei così nell'orto....felice settimana con un grande abbraccio

    RispondiElimina

E' possibile commentare nelle seguenti modalità:
1) Google/Blogger: occorre registrarsi gratuitamente a Google/Blogger.
2) OpenID: ancora in fase beta, consente di commentare utilizzando un account comune ad alcune piattaforme.
3) Nome/URL: basta immettere un nome (nick) ed il proprio indirizzo (se si possiede un sito/blog).
Ho dovuto eliminare la possibilità di commento anonimo per troppi commenti spam.