Gli usi e i costumi del fidanzamento e del matrimonio sono cambiati, io per prima, non ho seguito le tradizioni, ma scoprire come avvenivano questi riti nella nostra bella valle e a Isolabona mi incuriosisce. Ho trovato, nella tesi del 1957 di Maria Luisa Saettone, la moglie di Marino Cassini, un paragrafo dedicato al fidanzamento e al matrimonio. Leggendolo non ho potuto resistere di inserirlo nel post per San Valentino, perchè ci racconta di tradizioni andate perdute.
I tempi cambiano, giustamente, ma ricordare non fa mai male.
Fidanzamento e matrimonio
Di Maria Luisa Saettone
[...]Il periodo del caregnää (amoreggiare) faceva parte dell'eterno gioco dell'amore. Gli innamorati, a seconda del paese, avevano una denominazione particolare. A Isolabona, ad esempio, lui veniva definito bardäsciu, un termine oggi totalmente desueto il quale aveva il significato di giovane da marito. Lei, a Dolceacqua, veniva definita u s-ciancurelo. Tale parola ha anche un altro significato e sta ad indicare un grappolino d'uva. Un gentile omaggio di galanteria che i giovani fanno alle fidanzate paragonandole a chicchi d'uva che oltre a contenere zucchero possono anche, col loro contenuto, far girare la testa.
Vigevano pratiche ingenue che permettevano alle ragazze di sapere se si sposavano entro l'anno. Ad esempio una sartina che cercava un capo del filo in una arruffata matassa se non lo trovava rimaneva zitella.
Ogni ragazza, per sapere se avrebbe sposato un uomo ricco, nascondeva sotto il cuscino tre fave di cui una con la buccia, una sbucciata a metà e l'altra interamente. Durante la notte, al buio, ne sceglieva una e avrebbe così saputo se il futuro marito sarebbe stato una persona ricca, parzialmente benestante o povera.
Esisteva pure il sistema di gettare il primo giorno dell'anno una pantofola contro la porta: se questa si fermava con la punta rivolta verso l'uscio significava che la ragazza si sarebbe sposata entro l'anno. Il De Gubernatis, nel suo libro Storia comparata degli usi nuziali in Italia (Milano, 1869) rileva che persino in Russia vigeva un uso analogo e scrive "si gettava una pianella sopra la strada; lo sposo dovrà arrivare da quella parte verso la quale si volge la punta della pantofola".
Per informare i genitori dell'intenzione di sposare la loro figlia l'interessato era solito porre sulla soglia di casa della prescelta ün ciücu, un piccolo ceppo d'ulivo. Se il giorno dopo il ceppo non c'era più era segno che i genitori approvavano la proposta. Poteva accadere che qualche buontempone, per divertimento, portasse via nottetempo il ceppo o che un innamorato respinto lo trafugasse per impedire il matrimonio.
Poteva pure accadere che qualche pretendente, ignaro di essere stato preceduto, ponesse a sua volta il ciücu. In questo caso la famiglia pregava il banditore del paese, u batiuu da cria, di passare di caruggio in caruggio suonando una trombetta e informando la gente che si affacciava alle finestre: "U s'avarte che chi ä messu u ciücu sciü a porta de (seguiva il nome della famiglia) de andärlä a descciücää perché a giuvena a l'a giä enciücä" (Si invita colui che ha messo il ceppo sulla porta della famiglia (...) di toglierlo perché la giovane é già promessa).
Tale uso, scrive Giuseppe Ferraro, si riscontra anche a Serra San Bruno di Calabria dove "l'amante usa di notte mettere davanti alla casa della ragazza, da lui presa ad amare, un ceppo adorno di nastri, fazzoletti ecc. Se il ceppo é ritirato, la ragazza accetta l'amor suo, se no i parenti dicono : 'Non abbiamo figlie da marito' e allontanano il ceppo". Analogo uso si riscontra anche nell'Abruzzo".
A Isola gli innamorati respinti talvolta si vendicavano imbrattando la porta della ragazza con sostanze maleodoranti o le cantavano serenate con ingiurie più o meno sconce.
Eccone due riferite da un vecchio di Isolabona il quale, mentre le declamava, rideva forse ricordando la sua gioventù e i suoi trascorsi.
Bigina a Sciäcästrässe,
a figlia du bastéé ,
Cun tütte e sue cumpagne
che stän per lu cartié,
a seira a vä en retréta
cun tütti i giuvenoti
e, envece de camije
a ghe stira i manegotti.
Sti giuvenotti pöi,
a nu ve ne digu ran.
ché a ne dirìa trope
e u nu starìa ban.
Gardei che bala scöra
a n'ä mustrau en Acòla,
sta troia de Girola,
sta cavälä.
Caväle de omi frusti
a nu n'ämu mai vusciüu.
Adassu a me ne riu
de tue belesse.
(traduzione)
Bigina Schiaccapanni (Lavandaia)
la figlia del maniscalco
con tutte le sue compagne
che abitano nel quartiere
di sera si apparta
con molti giovanotti
e, invece delle camicie,
stira loro i manicotti.
Di questi giovani poi
io non vi dico nulla,
perché ne direi troppe
e non sarebbe convenient
Ma guardate che insegnamenti
hanno impartito ad Acòla,
a questa troia di Girola,
questa cavallona
Cavallone di uomini frusti
non ne abbiamo mai volute
E adesso me ne rido
delle tue bellezze
Poteva pure accadere che due innamorati, per rivalità fra le loro famiglie tentassero di tenere nascosta la loro relazione. Non era raro che qualche pretendente respinto rendesse nota tutta la faccenda tracciando per terra un caminetu de sene (sentiero di cenere) una lunga striscia di cenere che dalla casa di lei andava sino a quella di lui, e informando così tutto il paese.
Tali camineti de sene si tracciavano pure quando una donna sposata aveva una relazione illecita; in questo caso la striscia di cenere non iniziava dalla casa della donna, ma, in senso di disprezzo, incominciava dalla porta della sua stalla.
Totalmente scomparso in tutta la vallata l'uso riguardante i fidanzamenti fra giovani di paesi diversi. Consisteva nel far pagare una somma a colui che veniva a sposare una ragazza in un paese non suo. Era forse questa una reminiscenza del diritto familiare longobardo in cui era stabilito che, qualora un matrimonio avvenisse fuori della Sippe, lo sposo doveva pagare alla Sippe il guidrigildo pari al valore della sposa che si considerava in certo qual modo rapita alla sua comunità .
Una espressione caratteristica era ancora in uso alcuni decenni or sono per indicare le pubblicazioni di legge che venivano esposte nelle bacheche del municipio e della chiesa. Riferendosi ai due fidanzati si diceva i sun en ta gäggiä, sono nella gabbia, una allusione per indicare che il matrimonio era una trappola a due.
La cerimonia nuziale non presentava nulla di caratteristico, tranne l'analogia col battesimo. I due sposi, infatti, erano soliti lanciare dalla finestra ciucarin, papioti e ciapelette dolciumi vari, per lo iù caramelle ,nonché noci e mandorle. L'uso romano che la poesia di Catullo ha tramandato rimase a lungo vivo nella memoria degli Isolesi: "Ne diu taceat procax/fescennina iocatio,/ nec nuces pueris neget."
Il lancio delle noci conferiva alla cerimonia un sottile senso di melanconia in quanto stava a significare l'addio ai giochi dell'infanzia e l'abbandono della puerizia. Ma era una malinconia subito fugata durante il pranzo nuziale;perché non mancava mai qualche commensale che intonava strambotti e stornelli salaci che facevano arrossire la sposa. In questo vi era ancora un ricordo della "fescennina licentia" di cui il poeta latino parla nel suo carme dedicato al matrimonio di Manlio Torquato e Vinia Arunculeia[...].
Di Maria Luisa Saettone
[...]Il periodo del caregnää (amoreggiare) faceva parte dell'eterno gioco dell'amore. Gli innamorati, a seconda del paese, avevano una denominazione particolare. A Isolabona, ad esempio, lui veniva definito bardäsciu, un termine oggi totalmente desueto il quale aveva il significato di giovane da marito. Lei, a Dolceacqua, veniva definita u s-ciancurelo. Tale parola ha anche un altro significato e sta ad indicare un grappolino d'uva. Un gentile omaggio di galanteria che i giovani fanno alle fidanzate paragonandole a chicchi d'uva che oltre a contenere zucchero possono anche, col loro contenuto, far girare la testa.
Vigevano pratiche ingenue che permettevano alle ragazze di sapere se si sposavano entro l'anno. Ad esempio una sartina che cercava un capo del filo in una arruffata matassa se non lo trovava rimaneva zitella.
Ogni ragazza, per sapere se avrebbe sposato un uomo ricco, nascondeva sotto il cuscino tre fave di cui una con la buccia, una sbucciata a metà e l'altra interamente. Durante la notte, al buio, ne sceglieva una e avrebbe così saputo se il futuro marito sarebbe stato una persona ricca, parzialmente benestante o povera.
Esisteva pure il sistema di gettare il primo giorno dell'anno una pantofola contro la porta: se questa si fermava con la punta rivolta verso l'uscio significava che la ragazza si sarebbe sposata entro l'anno. Il De Gubernatis, nel suo libro Storia comparata degli usi nuziali in Italia (Milano, 1869) rileva che persino in Russia vigeva un uso analogo e scrive "si gettava una pianella sopra la strada; lo sposo dovrà arrivare da quella parte verso la quale si volge la punta della pantofola".
Per informare i genitori dell'intenzione di sposare la loro figlia l'interessato era solito porre sulla soglia di casa della prescelta ün ciücu, un piccolo ceppo d'ulivo. Se il giorno dopo il ceppo non c'era più era segno che i genitori approvavano la proposta. Poteva accadere che qualche buontempone, per divertimento, portasse via nottetempo il ceppo o che un innamorato respinto lo trafugasse per impedire il matrimonio.
Poteva pure accadere che qualche pretendente, ignaro di essere stato preceduto, ponesse a sua volta il ciücu. In questo caso la famiglia pregava il banditore del paese, u batiuu da cria, di passare di caruggio in caruggio suonando una trombetta e informando la gente che si affacciava alle finestre: "U s'avarte che chi ä messu u ciücu sciü a porta de (seguiva il nome della famiglia) de andärlä a descciücää perché a giuvena a l'a giä enciücä" (Si invita colui che ha messo il ceppo sulla porta della famiglia (...) di toglierlo perché la giovane é già promessa).
Tale uso, scrive Giuseppe Ferraro, si riscontra anche a Serra San Bruno di Calabria dove "l'amante usa di notte mettere davanti alla casa della ragazza, da lui presa ad amare, un ceppo adorno di nastri, fazzoletti ecc. Se il ceppo é ritirato, la ragazza accetta l'amor suo, se no i parenti dicono : 'Non abbiamo figlie da marito' e allontanano il ceppo". Analogo uso si riscontra anche nell'Abruzzo".
A Isola gli innamorati respinti talvolta si vendicavano imbrattando la porta della ragazza con sostanze maleodoranti o le cantavano serenate con ingiurie più o meno sconce.
Eccone due riferite da un vecchio di Isolabona il quale, mentre le declamava, rideva forse ricordando la sua gioventù e i suoi trascorsi.
Bigina a Sciäcästrässe,
a figlia du bastéé ,
Cun tütte e sue cumpagne
che stän per lu cartié,
a seira a vä en retréta
cun tütti i giuvenoti
e, envece de camije
a ghe stira i manegotti.
Sti giuvenotti pöi,
a nu ve ne digu ran.
ché a ne dirìa trope
e u nu starìa ban.
Gardei che bala scöra
a n'ä mustrau en Acòla,
sta troia de Girola,
sta cavälä.
Caväle de omi frusti
a nu n'ämu mai vusciüu.
Adassu a me ne riu
de tue belesse.
(traduzione)
Bigina Schiaccapanni (Lavandaia)
la figlia del maniscalco
con tutte le sue compagne
che abitano nel quartiere
di sera si apparta
con molti giovanotti
e, invece delle camicie,
stira loro i manicotti.
Di questi giovani poi
io non vi dico nulla,
perché ne direi troppe
e non sarebbe convenient
Ma guardate che insegnamenti
hanno impartito ad Acòla,
a questa troia di Girola,
questa cavallona
Cavallone di uomini frusti
non ne abbiamo mai volute
E adesso me ne rido
delle tue bellezze
Poteva pure accadere che due innamorati, per rivalità fra le loro famiglie tentassero di tenere nascosta la loro relazione. Non era raro che qualche pretendente respinto rendesse nota tutta la faccenda tracciando per terra un caminetu de sene (sentiero di cenere) una lunga striscia di cenere che dalla casa di lei andava sino a quella di lui, e informando così tutto il paese.
Tali camineti de sene si tracciavano pure quando una donna sposata aveva una relazione illecita; in questo caso la striscia di cenere non iniziava dalla casa della donna, ma, in senso di disprezzo, incominciava dalla porta della sua stalla.
Totalmente scomparso in tutta la vallata l'uso riguardante i fidanzamenti fra giovani di paesi diversi. Consisteva nel far pagare una somma a colui che veniva a sposare una ragazza in un paese non suo. Era forse questa una reminiscenza del diritto familiare longobardo in cui era stabilito che, qualora un matrimonio avvenisse fuori della Sippe, lo sposo doveva pagare alla Sippe il guidrigildo pari al valore della sposa che si considerava in certo qual modo rapita alla sua comunità .
Una espressione caratteristica era ancora in uso alcuni decenni or sono per indicare le pubblicazioni di legge che venivano esposte nelle bacheche del municipio e della chiesa. Riferendosi ai due fidanzati si diceva i sun en ta gäggiä, sono nella gabbia, una allusione per indicare che il matrimonio era una trappola a due.
La cerimonia nuziale non presentava nulla di caratteristico, tranne l'analogia col battesimo. I due sposi, infatti, erano soliti lanciare dalla finestra ciucarin, papioti e ciapelette dolciumi vari, per lo iù caramelle ,nonché noci e mandorle. L'uso romano che la poesia di Catullo ha tramandato rimase a lungo vivo nella memoria degli Isolesi: "Ne diu taceat procax/fescennina iocatio,/ nec nuces pueris neget."
Il lancio delle noci conferiva alla cerimonia un sottile senso di melanconia in quanto stava a significare l'addio ai giochi dell'infanzia e l'abbandono della puerizia. Ma era una malinconia subito fugata durante il pranzo nuziale;perché non mancava mai qualche commensale che intonava strambotti e stornelli salaci che facevano arrossire la sposa. In questo vi era ancora un ricordo della "fescennina licentia" di cui il poeta latino parla nel suo carme dedicato al matrimonio di Manlio Torquato e Vinia Arunculeia[...].
tradizioni che ora fanno sorridere. quella della cenere non la conoscevo, bella sorpresa per chi avrebbe voluto l'anonimato! quando ero bambina ricordo "il ciaravuglio" la festa che seguiva al matrimonio tra un celibe ed una vedova (o viceversa). un chiasso che durava parecchi giorni, a volte settimane, finchè gli sposi non offrivano una festa a tutti! anche questo ora non si fa più...
RispondiEliminaMa quante tradizioni... sono veramente delle strane usanze!!!
RispondiEliminaConoscevo quella delle fave e della cenere...
Hai fatto bene a pubblicare questa chicca è sempre istruttivo e arricchisce il nostro bagaglio culturale... però come cambiano i tempi... hehehehehe
Ciao Roberta grazie di essere passata e dei compliemnti... sempre gentilissima... ti auguro una felice serata.. un abbraccio
Tradizioni che una volta facevano sognare...
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