mercoledì 9 dicembre 2009

Toponimi della val Nervia attraverso la leggenda

Disegno di A. Rubino, copertina del libro Rigenerazione umana di Fortunato Peitavino


Qualche giorno fa in un post vi ho parlato della coltivazione della canapa in val Nervia indicando con il nome di canavaire i luoghi dove si praticava, toponimo ancora in uso.
L'amico Marino Cassini a tal proposito mi ha inviato alcune sue riflessione sui toponimi soprattutto su quello del rio Merdanzo.
In allegato vi erano anche due racconti, uno di Antonio Rubino pubblicato sul Corriere dei piccoli del 1933 dal titolo Le gesta di Rinaldo, l'altro è un racconto che Marino Cassini ha sentito raccontare da un'anziana signora di Isolabona, Maria Oddo.
Entrambi i racconti narrano delle gesta di Rinaldo ma i luoghi narrati sono diversi, a testimonianza che a volte, le leggende e la storia vengono stravolte nel folklore popolare.

Che la storia dei toponimi mi affascina l'ho scritto più volte, è una mania che ho sempre avuto, anche quando abitavo ad Arcore mi piaceva ascoltare i racconti degli anziani che indicando alcuni luoghi li chiamavano con il loro toponimo.
Questi erano soprattutto identificati con nomi di cascina, esisteva la cascina del Bruno, la cascina Papina e altre ma già allora erano in fase di abbandono nel parlare comune.......
C'era anche cascina San Martino ma oggi la chiamano tutti Villa San Martino anche se per me quella villa si chiamerà sempre Villa Casati, mentre la cascina di San Martino resterà il luogo dove ho trascorso indimenticabili pomeriggi con la mia compagna di scuola Laura, figlia del fattore.
Quelli di Isolabona li conosco per la maggior parte e non solo di nome ma anche l'ubicazione.
Dedicai un post ai toponimi di Isolabona a cura di Paolo Veziano qui
Mi piacerebbe sapere da voi cari lettori se l'uso dei toponimi dalle vostri è ancora in uso.....


Di Marino Cassini

TOPONIMI DELLA VAL NERVIA
Attraverso la leggenda


A volte ci si chiede: “Perché a quella località è stata battezzata con quel nome? Chi e per quale ragione l’ha scelto?”. La scienza della toponomastica affonda le sue ricerche nel campo storico, geologico, sociologico e, soprattutto, in quello folkloristico e fantastico, legato a fatti avvenuti, a leggende, a racconti, a situazioni particolari.
Ricordo un colloquio che anni fa ebbi con l’amico Alberto Cane. Si parlava del Barone Rampante di Italo Calvino e del suo personaggio, il barone Cosimo di Rondò, che aveva scelto una località caratteristica per isolarsi “dalla terra”: un torrentello che sulle carte topografiche è segnato col nome di Rio Merdanzo, un nome ben strano e poco piacevole sia per la vista, sia per l’olfatto.
Io sostenevo la tesi (che avevo letto su un libro di Storia Ligure) la quale riferendosi al medioevo parlava dell’esistenza del “Rivus Mendacium” (Ruscello menzognero), così definito perché, scorrendo tra le valli che da Monte Bignone raggiungono la Val Nervia (dove il rio si immette nell’omonimo torrente), quando piove intensamente sui monti, raccoglie tutte le acque e si ingrossa a dismisura per cui alla pigrizia iniziale corrisponde all’improvviso una piena inattesa. Un ruscello, quindi, che dice le bugie, contraddicendo la sua mitezza iniziale. Un torrente menzognero,insomma.
Rimane, però, il mistero del mutamento da “Mendacium” in “Merdanzo”.
Che fosse per lo scarico dei liquami nel ruscello da parte degli abitanti della zona? Una debole spiegazione perché a contatto col ruscello ci sono solo due paesi: Apricale e Perinaldo… e poi fino a qualche decennio fa i liquami umani e quelli animali non andavano mai sprecati nell’economia rurale, anzi venivano utilizzati nei campi per concimare la terra. Quale vecchio contadino non ricorda di aver portato sulle spalle, avvolto in un “curauu”, un barilotto di una ventina di litri, da spargere sulle zolle dell’orto dove avrebbe piantato zucche, pomodori e fagioli?
L’amico Alberto mi accennò ad un’altra spiegazione che mi convinse. Mi disse: “Hai mai notato che le “canaväire” [piccoli appezzamenti di terreno, tipo orti] si trovano quasi sempre a pochissima distanza dai corsi d’acqua? Per me – spiegò – la parola dialettale “canaväira” significa : appezzamento di terreno coltivato a canapa. I contadini, per ottenere i fili per tessere pezze di canapa, mettevano a macerare i fusti leggeri della canapa in pozzetti pieni d’acqua. Ora, si dà il caso che la canapa, durante il processo di decomposizione e di fermentazione, emana un fetore tremendo, una puzza simile a quella delle feci. Ecco dunque l’aggancio, il passaggio del toponimo da Mendacium a Merdanzo”.
Una spiegazione, quella fornitami da Alberto, oltremodo logica.

E di attribuzioni particolari circa la toponomastica nelle nostre valli ne ho riscontrato altre.
Sere fa, mentre sfogliavo alcune annate del “Corriere dei Piccoli”, mi sono imbattuto in alcuni racconti di Antonio Rubino, profondo conoscitore delle nostre valli di Ponente, e uno in particolare mi ha colpito: Le gesta di Rinaldo.
Conoscevo un racconto simile, che udii dalla viva voce di una anziana signora di Isolabona, Maria Oddo. L’ho messo mentalmente a confronto con quello di Rubino e ho notato come la fantasia popolare possa completamente stravolgere un fatto.
Giudicate voi.

Le gesta di Rinaldo
Leggenda ligure
(Versione di Antonio Rubino, pubblicata sul “Corriere dei Piccoli” Anno 1933, n° 29)

Nell’estate dell’Anno di grazia 800, Rinaldo di Montalbano, paladino di Carlo imperatore, cavalcava attraverso le montagne dei Liguri, diretto alla dolce Provenza.
Da Albingauno, città dalle venti torri, egli risalì a gran galoppo la Valle dell’Arroscia, valicò il Passo della Mezzaluna e discese in quattro salti ai tre castelli di Triora. Non c’era dirupo tanto scosceso, non c’era passo tanto impervio, non c’era selva tanto intricata da arrestare l’impeto del vecchio Baiardo; sembrava quasi che l’aria sottile e l’aroma dei fiori alpini ridonassero al cavallo nuova giovinezza. Saltava di greppo in greppo con la snellezza di un capriolo, annitriva di gioia, scoteva al vento la criniera e, dove i boschi eran più fitti, sfondava col petto l’intrico dei rami.
Uscito da Triora, Rinaldo affrontò di impeto la montagna, internandosi in un tenebroso bosco di faggi, su per una gran costa e raggiunse la limpidissima Fontana d’Argallo. L’aria era tiepida e il sole dardeggiava forte. I prati fioriti, la cupa ombra dei boschetti e il mormorio dell’acqua facevano di quella verde conca un paradiso, tanto che Rinaldo fermò il cavallo e mise piede a terra. Bevve alla chiara fonte e lasciò che Baiardo pascolasse un momento in libertà.
Ma quella breve sposta fu fatale al cavallo. Sazio d’erba tenera, Baiardo provò a gustare le foglioline e le bacche d’uno strano albereto contorto e lo strano alberetto, ch’era un tasso, altrimenti chiamato albero della morte, gli mise nelle vene il succo mortale.
Quando Rinaldo risalì in arcione il cavallo fu preso da una improvvisa follia: si lanciò a gran salti verso ponente, lanciando urli di dolore che parevano lamenti umani. Sotto i suoi ferri le pietre mandavano lampi, i pini, urtati nella corsa, si schiantavano come canne, un vento pauroso scoteva le cime degli alberi, tutta la montagna rintronava allo scalpitìo di quel galoppo sfrenato. Dopo un’ora, coperto di bava e di sudore, il corsiero cadde per non rialzarsi mai più. Si abbatté sulla sommità di una balza, volse gli occhi al sole ed esalò l’anima in un nitrito.
Nella viva roccia Rinaldo fece scavare una tomba dove diede al cavallo onorata sepoltura, poi sul coperchio incise con la punta di Fusberta la parola BAJARDO.
La località prese da quel giorno il nome di Bajardo, e Bajardo si chiama ancora oggi il paese che vi è sorto.
********

Rinaldo di Montalbano proseguì a piedi il suo cammino mentre già le montagne dell’Esterello si delineavano azzurre, all’orizzonte. Camminò per boschi e campagne fino a sera.
Cammina, cammina, giunse ad un monte coronato da fuochi. Una moltitudine di gente stava accampata attorno a quei fuochi, all’aperto. Erano uomini, donne, fanciulli sfuggiti ai saraceni che, guidati dal terribile Soridano, mettevano a sacco i paesi della costa.
L’improvvisa apparizione di Rinaldo armato, seminò il panico in mezzo alla folla dei fuggiaschi, ma il paladino impugnando la spada capovolta a mo’ di croce gridò forte:
“Vengo nel nome della vera Fede. Chi non ha Fede vada, ma chi ha Fede resti!” E così dicendo picchiò forte il piede sopra la roccia, e sulla roccia rimase impressa, profonda e indelebile, l’orma.
Dell’impronta di quel piede la località fu detta [piede di Rinaldo], e Perinaldo si chiama ancora oggi il paese che vi è sorto.

**********
Rinaldo aveva con Soridano un vecchio conto da regolare. Lo aveva, sotto le mura di Parigi, ferito di lancia, ma s’era, nella fretta, dimenticato di ucciderlo. Risparmiandogli la vita, gli aveva dato modo di commettere nuovi delitti e nuove ribalderie.
A tale dimenticanza bisognava al più presto rimediare.
Per farlo Rinaldo armò tutti gli uomini validi, si fece inviare rinforzi dai Conti Tenda e di Dolceacqua e requisì tutte le corde esistenti nella regione. Fece da tutti quegli armati e con tutte quelle corde sbarrare la strada del Nervia, poi, legatasi la spada al polso con un’altra corda, si recò solo in località Soldano dov’era il campo saraceno e suonò il corno tre volte.
Tutto l’esercito saraceno uscì dalle tende, alla rinfusa, preceduto dal terribile Soridano. Brandiva costui due lunghe scimitarre e stringeva tra i denti un pugnale.
“Soridano! - gridò il paladino, - Io son Rinaldo e vengo a terminare la partita che abbiamo interrotta sotto le mura di Parigi”.
A quel nome e a quel ricordo Soridano impallidì. Avrebbe voluto rispondere, ma non poteva, per via del pugnale che aveva in bocca.
Fece un cenno ai suoi arcieri, e i suoi arcieri, contro tutte le regole della cavalleria, lanciarono un nugolo di frecce contro Rinaldo.
Questi perdette subito la pazienza e cominciò a far roteare in aria la spada che portava appesa al polso.
Al primo giro la testa di Soridano, tagliata netta, volò via col pugnale e tutto: al secondo giro volarono in aria le teste dei quattro che gli facevano la scorta.
Poi la spada, roteando e fischiando sempre più forte, cominciò a mietere i saraceni come fossero spighe di grano.
Allora il terrore si impadronì dell’esercito infedele che si diede alla fuga incalzato da Rinaldo che non cessava su far mulinello con la spada.
Nella piana del Nervia il massacro fu tale che la località fu chiamata CAMPOROSSO, nome che conserva ancora oggi.
I pochi superstiti incapparono nelle corde che sbarravano la valle, furono fatti prigionieri e condotti alla presenza di Rinaldo, legati come salami.
“Troppo avete nuociuto!” - disse loro il paladino. - Non meritate pietà. Tuttavia avrete salva la vita, se giurate di rendervi utili, lavorando!”
I prigionieri giurarono ed ebbero salva la vita. Prima di proseguire il suo viaggio, Rinaldo di Montalbano li consegnò al Conte di Tenda, perché li mettesse a lavorare nella miniera d’argento di Vallaura.
Alla miniera il lavoro era duro. I prigionieri saraceni accumulavano contro la montagna enormi tronchi di larici, davano fuoco al mucchio e facevano col calore sgretolare la roccia. Quando la roccia era sgretolata e cotta, più facile riusciva romperla con le mazze e allargarne le fenditure. Penetrarono così a poco a poco, giorno per giorno, nelle viscere del monte raggiunsero i bianchi filoni del minerale che, lavato e ripulito, brillò a cumuli nel sole.
Oggi ancora, alla miniera di Vallaura, si può, per centinaia di metri, penetrare in quella che viene chiamata la GALLERIA DEI SARACENI.
Ma se il lavoro era duro, dolci erano i riposi. A turno, nelle giornate libere, i saraceni potevano cacciare i cervi e i camosci, pescare nei laghetti, compiere i loro riti.
La Val d’Inferno e la Val Fontanalba erano i ritrovi abituali; sulle rocce levigate di quelle valli selvagge essi si dilettavano a incidere, con infinita pazienza , le rozze figure che suggeriva la loro fantasia. Teste di cervi, di mucche, attrezzi da lavoro, reti, ceste, anelli, focacce fiorivano, come una misteriosa scrittura, sulle pietre. Anche le gallerie della miniera coi mucchi del minerale, anche le grossolane macchine per lavare l’argento venivano da essi cento volte riprodotte.
Queste incisioni esistono tuttora, a migliaia, e si chiamano le MERAVIGLIE.
Nessuno di quei saraceni volle mai, nel suo cieco orgoglio, farsi cristiano. Uno solo, l’ultimo superstite di essi, chiese, a poco distanza dalla morte, il battesimo, perché una miracolosa apparizione lo aveva convertito alla Fede. Aveva veduto un grande cervo, recante tra le corna una croce luminosa, ritto sulla sommità del Mon Bego.
Chi non crede a questa leggenda può, sempre che voglia, controllarne l’esattezza, sul posto.
Risalga le valli del Roja e della Miniera, s’interni nella Valle delle Meraviglie e là, tra migliaia di incisioni che adornano le rocce lisce, vedrà, nitida e bella, la testa del Cervo con la Croce.








Le gesta di Rinaldo
(raccolta a Isolabona da Marino Cassini)

[La prima parte relativa al toponimo di Baiardo è identica a quella raccontata da Rubino. Il racconto, però, prende subito una svolta diversa in quanto racconta la nascita dei toponimi di altre località non presenti nella versione di Rubino e cioè i toponimi di Perinaldo [che risulta modificato], Apricale, Isolabona, Dolceacqua, Camporosso [anch’esso modificato] e Ventimiglia.

…..Rinaldo, rimasto solo dopo la morte del fedele Baiardo, passò la notte in preghiera e nei ricordi delle molte avventure vissute assieme al suo destriero, alle battaglie affrontate al seguito di Carlo Magno. Non si accorse neppure che la nebbia notturna si era trasformata in pioggia sottile che penetrava attraverso i suoi vestiti e gli gelava il corpo. Con l’arrivo dell’alba e col cielo ricoperto di nubi, si avviò verso la costa, vagando per i boschi senza sentieri e avvertendo i sintomi di una malattia che il freddo della notte aveva aggravato.
Non si accorse neppure di essere arrivato vicino ad un gruppo di casupole di legno abitate da boscaioli che lo accolsero e lo ospitarono. Il paladino rimase in un dormiveglia per alcuni giorni, durante i quali fu curato dalle mogli dei boscaioli finché i sintomi della malattia cessarono. La febbre che lo divorava si attenuò e si spense.
“Dove mi trovo?” chiese non appena poté parlare.
“Tra buona gente, cavaliere. Siamo boscaioli e viviamo con i prodotti della terra.”
Rinaldo rimase con loro per alcuni giorni, finché non decise di riprendere il viaggio. Ma prima di partire, guardandosi attorno e constatato che il gruppo di casupole era costruito in cima di un poggio, volle battezzare quel luogo col suo nome e lo chiamò POGIUM RINALDI (Poggio di Rinaldo – oggi Perinaldo).
Salutata quella buona gente che lo aveva accolto e curato, raggiunse le pendici del colle e attraversò un ruscello in cui scorreva poca acqua.
La giornata era splendida e il sole brillava alto nel cielo. Alzando il capo verso la sommità di una collina a forma di piramide notò alcune volute di fumo che si innalzavano. Segnale che là si trovava qualche casolare di contadini o pastori o boscaioli. Decise di far loro visita e risalì le pendici del monte pensando alle ragioni che avevano spinto quegli abitanti a scegliersi come dimora il cucuzzolo della collina. Probabilmente erano fuggiti dalla costa dove i Saraceni continuavano le loro ruberie, uccidevano gli uomini e rapivano donne e bambini per venderli come schiavi sui mercati orientali. Tra quei monti la gente doveva sentirsi al sicuro.
Quando raggiunse la sommità fu accolto da un gruppo di bambini, da donne curiose e da uomini inizialmente sospettosi.
“Vengo in pace, buona gente. Non abbiate timore di me. Come si chiama questa località?.
Nessuno rispose.
Rinaldo si guardò attorno. Il sole inondava gli alberi e le foreste circostanti. Un luogo idilliaco, pensò, e abbagliato dal caldo sole, esclamò “Oh, apricum collis!”
Senza volerlo il paladino aveva inconsciamente suggerito agli abitanti che lo ascoltavano il nome che forse cercavano per dare una identità al luogo che avevano eletto per viverci. E da quel giorno la località prese il nome di APRICALE (cioè: colle soleggiato).
Chiese agli uomini da quanto tempo vivevano in cima al colle e quelli risposero che solo da un mese ne avevano preso possesso. Erano fuggiti dalla costa dove facevano i pescatori perché le scorrerie degli sciabecchi saraceni erano troppo frequenti e nel pericolo che poteva manifestarsi da un momento all’altro non si poteva vivere tranquilli a lungo. C’era poi un pirata saraceno di nome Mustafà Alì la cui crudeltà era temuta in tutto l’arco della costa ligure. Avevano saputo che a monte delle rive del Nervia altri fuggiaschi avevano trovato rifugio e si erano rifatti una nuova vita cambiando le loro abitudini da pescatori in pastori, contadini, taglialegna.
Uno di loro gli disse che più a valle, alla confluenza del rio che scorreva ai piedi della collina con un più ampio torrente, in una zona chiamata Lagaccio, già esisteva un folto gruppo di ex pescatori che si erano sistemati sulla sponda destra , vicino ad un ponte romano.
Curioso per natura, Rinaldo, quando lasciò il “colle aprico”, dopo che gli abitanti ebbero con lui spartito il modesto pasto fatto di carne arrostita sulla brace e di frutta di bosco, si diresse verso Lagaccio. La distanza non era molta e presto si trovò alla confluenza del rio con il Torrente Nervia.
Su uno sperone roccioso, in prossimità di un ponte a schiena d’asino, sorgevano alcune casupole in torno alle quali uomini e donne si avvicendavano nei lavori domestici. Sotto il ponte sorgeva un ampio lago dalle acque scure e profonde dove alcuni ragazzetti stavano pescando con la canna.
Dopo il primo istante di diffidenza nel vedere lo sconosciuto con la corazza lucente addosso e la spada al fianco, Rinaldo fu accolto festevolmente, specie dai bambini eccitati per la novità di quell’incontro e per le straordinarie avventure che quell’uomo poteva loro raccontare. E si rallegrarono quando seppero che il giovane guerriero sarebbe rimasto in loro compagnia per alcuni giorni. Passò una settimana durante la quale Rinaldo ebbe agio di conoscere e apprezzare l’indole di quel gruppo affiatato, composto di gente salda, robusta, fidabile, tanto che una sera, attorno al fuoco chiese loro: “Perché avete battezzato questa terra col nome di Lagaccio. Ben poco si addice alla serenità del luogo.”
“Vede, cavaliere, noi eravamo abituati all’immensa distesa del mare, quasi sempre azzurro, sporco e scuro solo nei giorni di tempesta, ma subito pronto a riprendere il primitivo colore. Qui ci siamo trovati di fronte a questo minuscolo lago, assai profondo e dalle acque sempre cupe, un lagaccio, insomma. Ecco il perché del nome.
“No, - rispose Rinaldo – è un nome che non si addice a questa località. No, non mi convince e poi dà al paese che state costruendo un nome assai sgradevole. Questa per voi è un’isola di pace, dove regna l’amicizia, la solidarietà e la bontà. Io l’avrei battezzata Insula Bona. E da quel giorno, secondo la volontà di Rinaldo, agglomerato di case, la maggior parte in pietra, prese il nome di ISOLABONA.
Quella breve vacanza di Rinaldo e quei giorni di riposo finirono bruscamente. Terminarono il giorno in cui un boscaiolo proveniente dal mare diffuse la notizia che Mustafà Alì e i suoi saraceni dopo aver messo a ferro e a fuoco la costa, si stavano dirigendo verso l’interno, razziando, uccidendo e portando via donne e bambini. Lui era riuscito a fuggire e ora voleva avvertire gli abitanti della valle affinché si preparassero alla difesa.
Senza porre indugi, Rinaldo indossò l’armatura di ferro, il cimiero piumato e messa al fianco Fusberta, la fida spada d’acciaio di Toledo, accompagnato da due giovani aitanti, armati di forca e bastone, si diresse a grandi passi verso il mare, ridiscendendo il greto del fiume.
Giunto a poca distanza da un ponte romano a schiena d’asino, simile a quello che aveva visto a Isolabona, udì grida di terrore, frammiste a urla sguaiate di soldati. Avvicinatosi maggiormente si trovò all’improvviso di frontge ad uno sparuto gruppo di uomini armati di falci, bastoni, forche di legno che lottavano per difendere donne e bambini che stavano alle loro spalle. Ma poco potevano quelle armi rudimentali contro le scimitarre e i pugnali.
Tratta dalla guaina la spada, Rinaldo si gettò nella mischia e roteando Fusberta cominciò a menar fendenti. La spada, guidata dalla sua mano salda e possente, fischiava tagliando l’aria e si affondava nei corpi dei saraceni che cascavano a terra colpiti a morte. Visto l’inaspettato aiuto quasi sceso dal cielo, tutti gli uomini si gettarono sui nemici con novello impeto. La battaglia durò a lungo e cessò quando Rinaldo e il saraceno Mustafà Ali si trovarono l’uno di fronte all’altro.
Si trattava di due veri campioni, adusi nelle tenzoni corpo a corpo e abituati a lottare con la spada. I presenti li attorniarono senza intervenire. La legge cavalleresca prevedeva che solo gli interessati al duello dovessero combattere. E combatterono. Combatterono a lungo finché, uno dei due cadde a terra. Mustafà Alì, colpito a morte, lanciò una occhiata feroce a chi lo aveva vinto in leale combattimento e, pronunciando il nome di Allah, morì.
Rinaldo, coperto di sangue, fu accompagnato poco distante dal ponte, là dove da una profonda fenditura di una roccia sgorgava uno zampillo d’acqua. L’acqua aveva formato una minuscola pozza dove quotidianamente si abbeveravano gli animali. Il paladino vi si immerse e provò un tale sollievo che gli fece esclamare: “Ti ringrazio, Signore, per quest’acqua fresca, cristallina, pura capace di far rinascere uomini, animali e cose. – E, bevendo direttamente dalla fonte, aggiunse, - e ancor più ti rendo grazie per la dolcezza con cui essa lenisce le mie ferite e calma la mia gola arsa dalla lunghezza della battaglia. Grazie,mio Dio, per questa dolce acqua.
E da quel giorno la località dove avvenne la battaglia venne battezzata col nome di DOLCEACQUA.
Bastarono pochi giorni di riposo, prima che Rinaldo potesse riprendere il cammino verso il mare, la meta che si era prefisso. Il cammino che gli rimaneva da compiere per raggiungere la costa era breve.
Quando si incamminò il cielo era sereno, terso, solcato da alti cirri. Voli di uccelli e di gabbiani si intrecciavano sopra la sua testa. Una brezza leggera, odorosa di salsedine sofgiava dal mare. Ogni tanto si fermava per dar sollievo alle ferite non ancora rimarginate. Dopo aver superato un’ansa del fiume si trovò di fronte un’ampia distesa pianeggiante tutta ricoperta da piante dai fiori rosso fuoco, una interminabile distesa di oleandri sotto i quali pascolavano pecore e capre. In lontananza brillava il mare che lameggiava sotto i raggi del sole.
“Come si chiama questa località? - chiese il paladino ad un pastorello che con un vincastro in mano teneva a bada una cinquantina di pecore e capre, mentre un cane gli saltellava attorno abbaiando festosamente.
“E me lo chiede, mio signore? – rispose il pastorello, fancendo con la mano un ampio gesto. - Basta che si guardi attorno e la terra le risponderà.”
Rinaldo sorrise, guardò quella distesa di oleandri, quel vasto campo di color rosso e trovò subito la risposta: CAMPOROSSO.
La riva del mare era ormai vicina e, seguendo lo sciabordìo delle onde che si frangevano sulla sabbia, raggiunse l’arenile dove ebbe una gradita sorpresa.
A poca distanza dalla riva due galeoni che inalberavano una bandiera con la croce di San Giorgio, stavano vicino ad uno sciabecco saraceno che stava affondando. Si trattava della nave di Mustafà Alì che era stata distrutta in un combattimento navale. La costa era stata liberata da un crudele nemico e la tranquillità degli abitanti assicurata.
“Ma fino a quando?” pensò il paladino con tristezza.
Alcuni marinai da bordo dei galeoni lo videro. Qualcuno lo riconobbe e una scialuppa, calata subito a mare, lo raggiunse per portarlo verso nuove avventure.
Prima di salire a bordo, Rinaldo si voltò indietro ed ebbe solo un rimpianto, quello di non poter avere al suo fianco il fedele cavallo Baiardo.

5 commenti:

  1. leggende molto interessanti. per fortuna sono scritte, così si possono tramandare... ne farò tesoro anch'io. grazie!

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  2. Ti rinnovo i complimenti per questi post!
    buona giornata!

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  3. Complimenti, tuoi post sono un pozzo di informazioni!!!!
    Un abbraccio
    Maria Rosa

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