giovedì 3 giugno 2010

I roveti di Isolabona di Luciano Gabrielli

Questa mattina ho ricevuto una mail da Luciano Gabrielli che dopo aver letto il mio post di ieri mi ha proposto di pubblicare un brano che lui stesso scrisse un po' di tempo fa dopo aver letto le memorie di Gio Antonio Cane ordinate dal figlio Francesco. I rapporti tra isurenchi e apricalesi sono i soggetti. Anche Luciano, come me, non è di Isolabona, ma da studioso e appassionato di archeologia ha saputo cogliere nella nostra comunità spunti su cui scrivere e dibattere .Peccato che ai l'isurenchi Doc manchino gli spunti per commentare.

Grazie Luciano per il tuo contributo.


I roveti di Isolabona

Di Luciano Gabrielli


Quando il mondo abitato dagli uomini era più piccolo, paesi che oggi ci sembrano vicinissimi, quasi un tutt’uno, erano spesso delle realtà lontanissime. Lontane non solo geograficamente, date le difficili vie di comunicazione, ma anche lontane nei sentimenti degli uomini, che spesso erano animati da rancori profondi le cui origini si perdevano nella notte dei tempi e che a volte nessuno ricordava più. Qualche furto di bestiame, qualche pascolo conteso o qualche sguardo di troppo ad una donna da parte del vicino forestiero scatenavano liti, vendette, rancori che il tempo faticava a sanare e che perpetuavano nuove occasioni di liti, vendette e rancori. Insomma, una spirale negativa il cui ricordo talvolta è arrivato fino a noi. Qualche volta però, forse poche volte per la verità, qualcuno ha saputo cambiar tendenza e trasformare questo fardello di odio in una fonte di motivazione verso il raggiungimento di obiettivi che hanno sfidato i secoli.

La storia che mi piace raccontare è proprio una di queste. Ce l’ha tramandata Gio Antonio Cane, un abitante di Isolabona vissuto a cavallo del XVIII e XIX secolo, appuntando minuziosamente le sue memorie in un diario che è arrivato fino a noi. Il fatto si svolge all’inizio del 1700 proprio a Isolabona e deve gran parte di ciò che è avvenuto ai rapporti difficili propri di quel tempo tra gli isolesi e gli apricalesi.

Isolabona ed Apricale sono due paesi finitimi, come si direbbe utilizzando una parola del vocabolario di Gio Antonio, ma le rispettive popolazioni nel passato non si sono mai molto amate, o meglio gli isolesi non hanno mai amato molto i vicini di campanile. La ragione si perde nella notte dei tempi e non contribuì certo a stemperare gli animi l’annessione dei suoi abitanti al comune di Apricale, più importante in quel periodo, avvenuta con un atto datato 3 gennaio 1287. Ma le discordie che con questo accordo forse si volevano far cessare sono continuate nel tempo. Agli isolesi non sarà andato mai molto giù che per molti secoli, per dirla con le parole di Gio Antonio Cane, “isola non poteva deliberare cosa alcuna di rilievo senza la Comune d’Apricale”[1].

Pur avendo ottenuto l’indipendenza amministrativa dal Comune di Apricale nel 1573 la Parrocchia di Isolabona continuava a essere una cappellania alla dipendenza della pievania di Santa Maria di Apricale. In quel tempo la vita del paese era fortemente pervasa dalla religione , immaginiamo quindi la felicità dei suoi abitanti quando nel 1641 il vescovo Gavotti eresse a parrocchia la loro chiesa di Santa Maria Maddalena.

Ma la costruzione era piccola, ed agli occhi dei fedeli forse sembrò indegna del nuovo stato, probabilmente non fu solo per questo motivo, ma presto iniziarono i lavori per renderla più importante e forse anche per smarcarsi così dalla sudditanza dagli abitanti del paese vicino, sudditanza che avevano dovuto subire fino ad allora anche nella professione della fede. Fu così che nell’anno 1712 furono iniziati nuovi lavori di ampliamento della chiesa, la cui struttura originaria era molto più antica ed aveva già subito numerosi interventi, e fu proprio durante questi lavori che avvenne il fatto che voglio narrare.

I lavori dovevano essere abbastanza importanti tanto che fu giudicato conveniente non avvalersi di artigiani locali. Era infatti prevista la sopraelevazione dell’edificio, la costruzione di una nuova volta e la copertura del tetto. Fu così che la costruzione fu affidata ad Antonio Bettini (o Battini), un capomastro di Lugano che aveva l’impresa a Breglio. Fu allestito il cantiere che fu affidato a quattro suoi operai, mentre il Bettini, che ne curava la supervisione, si recava settimanalmente sul posto per “dare il disegno ed ordinare le cose ai suoi lavoranti”.

Era l’anno 1713, i lavori procedevano spediti, “la volta era già mezza allestita ma qualcosa non fu fatto così come si sarebbe dovuto fare ed improvvisamente la volta crollò. Nel crollo morì un paesano mentre due muratori furono estratti feriti da sotto le macerie. Un vero dramma per il paese ed i lavori furono interrotti. Certo il dolore per il lutto doveva essere forte, ma forse altrettanto forte fu la delusione, ma più che altro la rabbia, nel sentire che i vicini apricalesi gioivano per la disgrazia subita imputandola, a loro dire, all’incapacità degli isolesi di portare a termine un’opera così importante. Per loro non ce l’avrebbero mai fatta ed i rovi sarebbero presto cresciuti abbondanti sulle rovine. Questo sentimento doveva essere certamente diffuso tanto che Gio Antonio Cane annotava nei suoi appunti “Quando andò a terra la volta della Chiesa gli Apricalesi dicevano che nella Chiesa d’Isolabona vi nasceranno li roveti”.

Immaginiamoci lo stato d’animo degli abitanti di Isolabona. Dal paese vicino arrivava una provocazione troppo forte che non poteva essere lasciata inascoltata. Chissà quali vendette avranno meditato mentre nuovo odio si andava aggiungendo all’odio atavico che già governava il rapporto tra i due popoli.

Il reverendo Rettore Ignazio Calvini doveva essere un buon pastore e certamente conosceva bene il suo gregge. L’onta per la derisione subita dai vicini doveva essere così scottante che non fu necessario molto sforzo per convincere i suoi compaesani a “metter mano all’opera”. Facendo leva sul loro orgoglio fu anche in grado di infondergli il coraggio ad accettare una sfida che prima avevano giudicato superiore alle loro capacità. Ma in fondo in fondo era pur sempre una vendetta, se pur molto sottile.

Il paese diventò un grande cantiere, in quindici giorni la fornace di calce fu riempita delle legna necessarie ed in un mese “vi diedero fuoco tutti d’unanime consenso. La costruzione ricominciava. Nell’anno successivo, era in 1714, la volta fu terminata e venne iniziata la produzione dei coppi per la copertura del tetto. Ancora un anno e l’opera fu conclusa. L’orgoglio per il lavoro fatto doveva essere tanto, ma di più fu certamente la soddisfazione di essersi riscattati agli occhi degli apricalesi. Ancora una volta Gio Antonio Cane si fa portavoce del sentimento collettivo scrivendo “Nel 1715 si è fornito l’opera e tutto il pulimento ornato l’opera, come si suol dire “Finis Corona ……….” questo a disprezzo degli Apricalesi”. Forse avrebbe dovuto scrivere “a dispetto” ma la parola “disprezzo” che invece ha usato certo meglio si adattava a descrivere il suo stato d’animo e quello dei suoi compaesani.

Ma la storia non è finita qui, e anche quest’altra parte è frutto degli altri tempi in cui si svolse. Oggi al crollo sarebbe seguita un’inchiesta, ma allora forse si credeva di più nella fatalità e l’unica sua conseguenza fu quella di interrompere i lavori. Questa volta però c’era un colpevole ed era l’imperizia di chi li stava eseguendo. Scrive Gio Antonio Cane “Non avendo caricato gli scotri nel colmo come a dovere de Maestri di muro, mentre si travagliava si sono ristretti gli scotri e si dirocò il lavoro fatto”. Forse non ci fu nessuna inchiesta, nessun processo e nessun risarcimento per il danno subito, ma il responsabile non deve aver da allora dormito sonni tranquilli perché “quando morì il soprannominato Capo Mastro Battini in Lugano suo Paese ha lasciato duecento Franchi alla Parrocchia di Isolabona che per la sua mancanza andò a terra la volta della Chiesa”.

Decisamente una storia d’altri tempi.

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[1] In corsivo il testo originale tratto da “Trascrizione delle memorie di Isolabona scritte da Gio Antonio Cane e ordinate dal figlio Francesco (fatta da Rossi Lorenzo su una fotocopia in possesso della Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia)”

4 commenti:

  1. Interessantissimo post !

    Buona fine settimana , Roberta

    Cri

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  2. anticamente tutti i paesi confinanti erano nemici tra loro. questo, per fortuna, non accade più!

    RispondiElimina
  3. Roberta,scrivi dei post interessanti che leggo sempre volentieri.
    Buon fine settimana, ciao
    Stefano di Semplici Conversazioni

    RispondiElimina

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